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Interviste

Valentina Gigante, psicologa di bordo: “Così prevengo e affronto crisi dei marittimi”

Il clima all’interno di una nave è fondamentale per la sicurezza dell’equipaggio: conflitti, lontananza, difficoltà personali sono gestite da una professionista che trasforma la nave da luogo di stress ad ambiente di benessere

di GIUSEPPE ORRÚ
17 Maggio 2025
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Samsung Heavy Industries – autonomous-voyage – guida autonoma – unmanned equipaggio

La vita a bordo di una nave è fatta di ritmi serrati, isolamento e convivenza forzata tra persone di culture diverse. In questo contesto, il benessere psicologico degli equipaggi è un tema ancora poco raccontato ma sempre più rilevante. Valentina Gigante, psicologa specializzata nel supporto ai marittimi, nata a Venezia, dove vive tutt’ora, lavora a bordo delle navi roro-pax per gestire conflitti, situazioni di stress e difficoltà personali. In questa intervista racconta il suo lavoro e le problematiche più comuni che affrontano gli equipaggi in mare aperto.

Dopo la laurea in Psicologia Sperimentale all’Università di Padova, a indirizzo neuropsicologico, e una tesi sull’esplorazione spaziale in Realtà Virtuale e un periodo di ricerca in neuroscienze all’University College di Londra (UCL) e al Dipartimento di Psicologia Sperimentale dell’Università di Padova, Valentina Gigante ha voluto lavorare in realtà internazionali di diversi settori, PMI e multinazionali. Europa, USA, Sud America, dove ha imparato a gestire dinamiche complesse e culture diverse, in cui il focus erano il risultato, la performance, i KPI (Key Performance Indicator). Col tempo, il suo focus sono diventate le persone: il vero margine di miglioramento non parte dai numeri, ma da loro. Una formazione psicologica solida è basilare, una consapevolezza quotidiana è vitale.

Come nasce l’idea di diventare una psicologa a bordo di una nave mercantile e soprattutto come ha fatto a proporla alla compagnia, inventandosi di fatto un lavoro?

“Nasce da un incastro perfetto tra intuizione e tempismo. Sì, di fatto ho creato un lavoro, ma in realtà ho solo mostrato che serviva, bastava farlo esistere. I ruoli migliori si creano in base alle persone, non ad una job application. Gli imprenditori hanno bisogno di chi propone soluzioni, non di chi si limita esclusivamente a segnalare problemi. Partire dalle navi mercantili dà il vantaggio di cominciare da un contatto più diretto e reale con l’equipaggio, confrontandoti con le vere fondamenta della vita di bordo. Il numero di persone è più ridotto, il carico di lavoro più concentrato e il contesto più isolato e spartano. Questo fa sì che si possa lavorare su dinamiche relazionali essenziali, stress da isolamento, gestione della fatica e comunicazione efficace, a differenza delle navi da crociera dove la componente servizio al cliente è enorme e il contesto è più strutturato”.

Quali sono le problematiche più frequenti che riscontra tra i marittimi?

“Il senso d’isolamento, i conflitti latenti, la lontananza dai familiari, la mancanza di un vero supporto emotivo, condizioni di lavoro impegnative e spazi limitati, la pressione per adattarsi alle nuove tecnologie e la monotonia della routine di bordo. Tutto questo può rappresentare un rischio per la sicurezza, creando anche più difficoltà ad assimilare informazioni e prendere decisioni tempestive”.

Come si gestiscono a bordo situazioni di conflitto tra membri dell’equipaggio?

“La gestione tecnica di un conflitto a bordo parte sempre dall’ascolto attivo, una comunicazione assertiva e tecniche di de-escalation: si deve identificare il reale bisogno sottostante di ciascun individuo, prima ancora della posizione espressa. Poi si lavora sulla negoziazione delle percezioni, mai solo sui fatti. Serve un metodo, non l’istinto. E serve la presenza di una figura neutrale e preparata: la psicologia non è improvvisazione, ma prevenzione e strategia relazionale. Tutto comunque deve partire dalla prevenzione attraverso la formazione all’ascolto, alla comunicazione assertiva e alla leadership situazionale. Il tutto nel rispetto delle gerarchie, ma senza negare il fattore umano. Non si va alla deriva per le onde, ma per i non detti. E i conflitti a bordo non si estinguono col silenzio: con quello si alimentano. Serve gente preparata, non buon senso e pacche sulle spalle”.

Quanto incide la lontananza da casa sulla salute mentale dei marittimi?

“La lontananza da casa per un marittimo non è solo una questione geografica, ma una distanza che pesa sulla sua salute mentale. L’isolamento prolungato, la separazione dagli affetti e i lunghi periodi in mare possono portare a stress e ansia già dopo due settimane. Inoltre, la mancanza di un vero supporto emotivo, l’opportunità di socializzazione autentica e le difficoltà nel comunicare con la famiglia amplificano il senso di solitudine”.

In che modo cambia l’approccio con marittimi di nazionalità e culture diverse?

“L’approccio ai marittimi di diversa nazionalità cambia molto: non basta parlare la stessa lingua, bisogna anche sintonizzarsi sulla stessa frequenza culturale. Quello che per uno è rispetto, per l’altro può sembrare freddezza; quello che per uno è collaborazione, per l’altro può sembrare invadenza. Non si tratta solo di tradurre parole, ma soprattutto significati e comportamenti. In alcune culture non si guarda mai il superiore negli occhi per rispetto, in altre è il contrario: se non lo fai, sembri disonesto. C’è chi non si esprime apertamente per educazione, ma poi sviluppa disagio perché non si sente ascoltato. Se non conosci queste sfumature rischi di travisare tutto. La psicologia serve anche a questo: a creare ponti reali, evitare fraintendimenti potenzialmente pericolosi e valorizzare ogni singolo contributo, nel rispetto delle differenze. Non esistono ricette pronte: esiste l’ascolto attivo, la flessibilità e la capacità di adattare il proprio stile comunicativo a chi si ha davanti”.

Che tipo di supporto offre concretamente a bordo, giorno per giorno?

“Giorno per giorno, porto a bordo ciò che non si vede ma tiene in piedi tutto il resto: fermezza mentale, ascolto attivo, prevenzione delle crisi. Non sono lì per fare due chiacchiere, ma per intervenire prima che lo stress diventi sabotaggio, e la solitudine diventi pericolo. Dal dialogo individuale alla gestione dei conflitti, alla formazione sull’intelligenza emotiva e al team building, all’analisi del clima e all’indagine dei fattori di rischio psico-sociali. Credo sia fondamentale incarnare ciò che si trasmette, e il mio lavoro è la dimostrazione tangibile dei principi che condivido”.

C’è una preparazione psicologica specifica prima di un imbarco?

“Certo. Non si sale a bordo solo con la valigia, ma anche con una buona dose di consapevolezza. In mezzo al mare non ci sono vie di fuga, e se non ti conosci abbastanza rischi di non arrivare a fine imbarco. Nel convivere h24 con persone, spazi e ritmi che mettono alla prova serve allenamento mentale, non solo spirito di adattamento. In questo senso chi è abituato a gestire situazioni o persone, dove rivesti contemporaneamente più ruoli, spesso è più preparato di molti manager, perché lì non ci sono ferie, neanche mentali. E in nave, questa concretezza fa la differenza”.

Come si interviene in caso di emergenza emotiva o crisi personale a bordo?

“Niente tappetini da yoga né frasi motivazionali alle paratie. In caso di crisi l’intervento richiede tempestività, competenza e una presenza professionale costante. Non si tratta di offrire semplicemente conforto, ma di attivare un supporto psicologico strutturato, capace di contenere l’emergenza e prevenirne l’aggravarsi, nel rispetto del contesto e del ruolo di ciascuno. È fondamentale saper riconoscere i segnali di stress acuto o di disagio psichico, prima che diventino un problema di bordo. Qui non si tratta di tirare su il morale, ma di evitare che si creino crepe nel sistema umano della nave”.

Quali segnali le fanno capire che un marittimo è in difficoltà? 

“I segnali variano in base alla cultura, alla personalità dell’individuo e al contesto in cui si verificano. Ci sono comunque degli indicatori comuni che aiutano a identificare situazioni problematiche, e sebbene alcuni segnali possano essere universali, come l’evitamento del contatto visivo o il cambiamento nelle dinamiche sociali, è essenziale considerare anche le specificità culturali. A bordo, il disagio spesso si camuffa bene: chi è sempre presente può leggere anche i silenzi, gli sbalzi di umore, i turni che diventano rifugi o le pause che diventano latitanze. Il corpo parla”.

Le compagnie di navigazione oggi investono abbastanza sul benessere mentale degli equipaggi?

“Negli ultimi anni l’attenzione verso il benessere mentale a bordo è cresciuta, ma siamo ancora lontani da un investimento strutturato e diffuso. Le compagnie che scelgono di agire in modo concreto, inserendo professionisti qualificati e promuovendo una cultura del supporto psicologico, dimostrano visione e responsabilità. Non si tratta di un lusso, ma di una necessità umana e operativa”.

Quali strumenti o attività consiglia per mantenere un buon equilibrio psicologico durante i lunghi imbarchi?

“Consiglio sempre una cassetta degli attrezzi personalizzata: routine minime ma regolari, anche solo 10 minuti al giorno, contatto con affetti stabili quando possibile, tecniche di autoregolazione come la respirazione consapevole, gli ancoraggi sensoriali, le pause di consapevolezza. Ma il vero strumento chiave è non far finta di niente: ascoltare i propri segnali, anche quelli più scomodi, e chiedere supporto se serve. A bordo la testa è il primo motore da mantenere efficiente”.

Come si rapporta con il comandante e l’armatore in caso di problematiche delicate?

“In caso di problematiche delicate il mio approccio è prima di tutto basato sull’ascolto e sulla gestione delle informazioni in modo discreto e rispettoso. Con il comandante mantengo un dialogo diretto e costruttivo, consapevole del suo ruolo centrale a bordo. Con l’armatore comunico in modo chiaro e orientato alla soluzione, fornendo analisi e proposte basate su dati e osservazioni oggettive. In entrambi i casi il mio obiettivo è contribuire al benessere dell’equipaggio e alla sicurezza operativa, sempre nel rispetto dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno”.

C’è una rete di psicologi marittimi o è ancora un ruolo raro?

“Al momento non esiste una rete strutturata e riconosciuta a livello internazionale, ma il bisogno è sempre più riconosciuto. Il mio ruolo è ancora raro e pionieristico, anche se in crescita. Alcune compagnie iniziano a integrare il supporto psicologico, ma spesso solo a terra o in consulenza esterna, per altre il supporto psicologico diretto resta solo marginale. Mi rendo conto di essere parte di una nicchia in evoluzione e che potrei essere tra le prime a definire standard, metodi e reti professionali. Personalmente ritengo fondamentale che ci sia un equilibrio tra preparazione psicologica ed esperienza pratica di bordo. La psicologia aiuta a leggere le dinamiche, a gestire lo stress e a prevenire crisi emotive, ma senza l’esperienza diretta di bordo la teoria rischia di rimanere vuota; al contrario, senza una solida preparazione psicologica, l’esperienza potrebbe non essere utilizzata al massimo del suo potenziale. Un approccio che funzioni richiede entrambe le cose”.

Qual è stata la situazione più difficile che ha dovuto gestire a bordo?

“Non entrerò nei dettagli, ma posso dire che ciò che si nota in questi casi è che la nave, come un organismo, si trasforma completamente. Quando si verifica una difficoltà a bordo l’intero ambiente cambia: l’equipaggio si adatta e si regola in base alla situazione. L’atmosfera passa da routine quotidiana a tensione ma, allo stesso tempo, è sorprendente come, con il giusto supporto, la stessa nave può trasformarsi in un luogo di coesione e resilienza. La vera sfida è mantenere quel delicato equilibrio che consente a ciascuno di trovare il proprio spazio e superare insieme il problema”.

Chi si prende cura del suo benessere psicologico? Come sono cadenzati i suoi imbarchi e come avviene la sua “decompressione” dopo un imbarco?

“Per quanto riguarda il mio benessere psicologico, la risposta è semplice: io stessa. La mia formazione psicologica e la mia esperienza a bordo mi permettono di riconoscere quando è il momento di fermarsi, ricaricare le energie e fare un bilancio. I primi tre giorni post-imbarco rappresentano la fase di decompressione psicofisiologica necessaria per il rientro a uno stato di omeostasi, in cui il sistema nervoso autonomo si riadatta, si abbassano i livelli di iperattivazione e si torna gradualmente ad una percezione del tempo e dello spazio più coerente con la vita a terra. Il tempo che dedico a me stessa una volta a terra è essenziale, e mi aiuta a ristabilire il giusto equilibrio tra il lavoro e la vita privata. I miei imbarchi, ben cadenzati, sono quindi sempre seguiti da momenti di recupero. L’equilibrio psicologico è fondamentale per poter fare bene il proprio lavoro”.

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