Piani d’impresa vs. Piani economici finanziari: la confusione regolatoria sulle concessioni portuali
Davide Maresca mette in luce l’esistente bicefalia del sistema giuridico in materia, scaturita dagli ultimi interventi normativi europei e italiani
Contributo a cura di Davide Maresca *
* managing partner dello studio legale Maresca&Partners
Emerge recentemente con chiarezza uno stato di confusione diffuso nell’ordinamento che genera la necessità di una riflessione, quasi naturale, che non si può non esplicitare.
Prendendo le mosse da un recente articolo apparso su SHIPPING ITALY relativo all’adempimento ai piani d’impresa dei concessionari portuali, si sente il bisogno (per uno studioso della materia) di chiarire alcuni temi e sottolineare una bicefalia del sistema giuridico.
Nel 1994, su spinta comunitaria, nacquero le Autorità portuali che assegnavano concessioni di puro uso del bene (senza una componente di servizio) con un solo vincolo: promuovere il più possibile (traffico) per valorizzare il bene demaniale. Una visione che ha portato gli aspiranti concessionari a presentare piani d’impresa che presupponevano uno sforzo commerciale importante per attrarre più traffico possibile (vero driver del sistema della legge 84/94 e del codice della navigazione).
Intervennero poi la Dg Comp della Commissione europea e il Tribunale UE che hanno applicato alle Autorità portuali la disciplina della concorrenza in ragione della relativa natura economica delle attività svolte. Con ciò, confermando la legittimità della impostazione “immobiliare” delle concessioni concepite come “uso del bene” e non come “servizio esternalizzato dallo Stato” né come servizio di interesse economico generale.
Nei piani d’impresa gli obbiettivi di traffico erano (e sono) obbiettivi e non vincoli: gli investimenti erano (e sono) strumenti funzionali a quegli obbiettivi. E, in questo senso, costituivano vincoli funzionali (che vanno cioè letti in funzione del traffico che si è riusciti ad attrarre e che era possibile attrarre). Del resto, l’Autorità portuale, oltre a poter dichiarare la decadenza per chi non riusciva a giustificare eventuali scostamenti sostanziali (nella sua accezione comunitaria da giurisprudenza Pressetext), se pensava di poter di valorizzare di più il bene, poteva (e può) persino revocare la concessione (purché l’indennizzo da corrispondere al concessionario fosse inferiore al maggior guadagno derivante da una nuova assegnazione).
Sennonché, l’Europa interviene nuovamente e non ha una sola voce. Esattamente come in Italia, la Dg Comp (equivalente alla nostra Agcm) non va sempre d’accordo con le altre direzioni della Commissione europea che, invece, pongono obbiettivi di regolazione pubblica che sono spesso in tensione e contrasto con la libera concorrenza presidiata dalla Dg Comp.
Persino la Dg Grow che presidia il libero accesso al mercato unico ha approccio molto diverso dalla Dg Comp: il libero accesso al mercato unico (art. 26 TFuE e ss.) è obbiettivo che presuppone una regolazione (es. l’obbligo di gara), cosa che è per definizione in contrasto con la libertà di concorrenza (art. 101 ss. Tfue), come la tradizionale dottrina sul tema ha sottolineato negli scritti principali della materia (Fox, Posner, Hawk, Patterson, Hylton, ecc…).
Infatti, una componente importante della Commissione europea (soprattutto la parte di policy delle Dg che nulla hanno a che fare con la concorrenza e il mercato, ad es. la Move) ha influenzato decisioni degli Stati membri legando obbiettivi di riforma portuale (non sempre condivisi con le altre Dg) all’erogazione di tranche di debito del Pnrr: una vera e propria sovranità del debito travestita da Milestone virtuose.
Si è così formata, proprio sulla spinta delle Dg che non tutelano la concorrenza, la disciplina di attuazione dell’art. 18 della legge n. 84/1994, ossia il Dm n. 202/2022 e le linee guida Dm n. 110/2023.
Tuttavia, i contenuti non sono giuridicamente basati per attuare le norme sulla tutela della concorrenza di cui alla recente sentenza della Corte: l’impostazione delle concessioni basata su una equivalenza (tendenziale) tra costo del debito/equity e rendimento, infatti, “appiattisce” la gestione industriale, sancendo una piena identità tra redditività ammessa e rendimento finanziario ammesso. Ciò che è più lontano possibile dalla promozione di obbiettivi di traffico sfidanti. Una sorta di obbligo ad accontentarsi.
Il mancato rispetto di tali vincoli finanziari, in termini di extra redditività comporta un rischio di inadempimento molto più rigido rispetto agli obbiettivi dei vecchi piani d’impresa “ex legge 84”.
Un meccanismo di remunerazione (quello nuovo) mutuato dallo schema della nota sentenza Altmark della Corte di giustizia per il Tpl, servizio di interesse economico generale, e basata sull’art. 106 Tfue; base giuridica che, ad oggi, non è certamente la stessa delle concessioni portuali.
Qualcosa che è fortemente disincentivante rispetto all’attrazione di traffico ma funziona, invece, per le concessioni dove la domanda di mercato è indipendente dall’attività commerciale e di promozione dei traffici (come il Tpl, le autostrade, ecc…).
Sebbene molti soggetti (sia pubblici che privati) sguazzino sulla confusione terminologica tra tutela del mercato e tutela della concorrenza (come se fossero la stessa cosa), il risultato che si è prodotto pone oggi conseguenze concrete che sono sotto gli occhi di tutti: una bicefalia degli obbiettivi concessori in completa tensione tra loro.
Da un lato piani d’impresa “vecchi” basati su obbiettivi sfidanti che spingono l’impresa concessionaria a cercare traffico. Dall’altro piani economici finanziari che, per essere rispettati, spingono l’impresa a non guadagnare troppo.
Il delicato punto di equilibrio dovrebbe essere “affare della regolazione”.
Tuttavia, abbiamo una disciplina regolatoria appiattita sul secondo parametro che comincia impropriamente ad essere utilizzato anche per valutare i “piani d’impresa vecchi” non considerando che nell’ordinamento esiste un principio base: “tempus regit actum”, corollario della certezza del diritto (più importante motore di attrazione degli investitori seri).
Pertanto, sebbene la verifica degli investimenti previsti dal piano d’impresa (vecchio stile) sia compito molto importante delle Adsp ma legato ad una valutazione tecnica funzionale al traffico potenziale e conseguito, la verifica del rispetto del Pef nuovo è qualcosa di molto più rigido e che si può apprezzare semplicemente leggendo alcuni numeri (cosa che non è possibile fare con i vecchi piani d’impresa).
In questo contesto, occorre evitare il rischio di raccontare il vecchio sistema (che va comunque raccontato) con i criteri del nuovo sistema.
Inoltre, occorre anche evitare il rischio di raccontare il nuovo sistema come qualcosa di automaticamente virtuoso: probabilmente, l’eccessiva libertà del previgente modello (con una evidente carenza di criteri oggettivi di controllo uniformi) ha prodotto un eccesso odierno di “visione finanziaria” (forse perché è l’unica controllabile con numeri inequivocabili) con il rischio di trasformare giuridicamente i porti in “piazzali autostradali”.
Se sarà una scelta vincente o meno lo dirà la storia: agli operatori quotidiani (come il sottoscritto) non resta che prenderne atto e fare il possibile affinché, in questa obiettiva e oggettiva bicefalia giuridico-economica, imprese e amministrazioni pubbliche possano comunque svolgere il proprio lavoro sempre finalizzato a far circolare le merci e i servizi, senza preconcetti ideologici.
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