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Portuali e marittime: la ‘genealogia di un’esclusione’ nel nuovo libro di Barbara Bonciani

La disparità di genere nei porti italiani è in peggioramento, ma alcune esperienze positive come quella di Livorno possono fare da apripista al cambiamento

di FRANCESCA MARCHESI
20 Gennaio 2025
Stampa

Spesso intessuto solo sulla base di aneddoti, esperienze familiari e personali, il dibattito sulla (scarsa) presenza femminile nel settore marittimo e portuale italiano può ora contare su un contributo che integra elementi di vita professionale ‘vissuta’ a un approccio scientifico, basato su elementi di ricerca sociale e ricostruzione storica.

Si deve a Barbara Bonciani – docente di Sociologia dello sviluppo alla Università di Pisa, ma in passato anche Assessora al porto di Livorno e componente del centro studi della AdSP labronica – il tentativo di inquadrare la questione femminile di settore in uno scenario normativo, storico e sociale, cristallizzandola nel volume “Portuali e marittime, perché no? La disparità di genere nei porti italiani” edito da FrancoAngeli nella collana Social DistrActors.

Nel testo – che sarà presentato il 23 gennaio a Livorno – Bonciani ricostruisce la ‘genealogia di una esclusione’, giustificata in passato dalla necessità di prestanza fisica, considerata condizione essenziale per svolgere il lavoro di portuale. Una necessità che però oggi nuove strumentazioni e tecnologie hanno fatto venire meno, anche per gli uomini (salvo alcune attività specifiche, come per le fasi di rizzaggio e derizzaggio navi), ma che risulta ancora inamovibile dalle convinzioni di molti addetti ai lavori.

Il dato di fatto è quindi una segregazione che ancora oggi si ritrova in primis guardando alle realtà ex art.16 17 e 18 degli scali (più equilibrata invece la situazione delle port authority, dove però resta il tema del ‘soffitto di cristallo’, ovvero dell’accesso delle donne alle posizioni di vertice).

Il quadro che emerge è perlopiù deprimente, soprattutto considerata l’involuzione degli ultimi anni. Dal 2020 al 2022 (dati Assoporti), la percentuale di donne occupate dalle tre categorie è infatti calata dal 6,6% al 6,3% del totale (per 1.269 dipendenti su 20.123), con l’unico andamento positivo riscontrato tra le imprese ex art. 18, ovvero i terminal privati, dove queste sono cresciute numericamente, arrivando a contare ora per l’8%. Ancora più negativa la situazione delle marittime italiane, in primis perché tutt’oggi invisibili: non esistono dati sulla presenza femminile a bordo (salvo che per quella globale, stimata in circa il 2%).

La battaglia per aumentare l’accesso delle donne alle professioni portuali non è però affatto una sola questione di principio. “Il contratto di riferimento – ricorda l’autrice – è molto più vantaggioso e tutelante per lavoratori e lavoratrici di quello della logistica”. Lasciare le donne fuori dai porti significa quindi escluderle da un ambito lavorativo “contrattualmente ed economicamente conveniente”. E che pure offrirebbe loro molti vantaggi interessanti, come evidenziato dalle interviste condotte tra alcune portuali di Livorno. Non solo quelli di lavorare all’aperto, in squadra e vicino al mare, ma anche quello di poter operare su turni, guadagnando flessibilità utile per il lavoro di cura in famiglia.

Su questo sfondo, Bonciani offre però un elemento di speranza sulla base della realtà che conosce meglio: appunto quella della Clp di Livorno, che ha visto entrare le prime tre donne nell’organico già nel 1982. Ad oggi, lo scalo toscano conta ancora una presenza ‘record’ di donne (20%) tra le imprese ex art.17 (contro una media nazionale dell’1,7%), mentre le realtà ex art. 16 e 18 arrivano al 9% (a fronte di una media italiana rispettivamente del 6 e dell’8%). Tra gli esempi meritevoli citati nel libro, anche quello della Agenzia del Lavoro portuale di Trieste, mentre non spicca invece in positivo il caso della Culmv, che impiega sei lavoratrici donne.

Diversi sono le azioni che secondo le stesse portuali intervistate da Bonciani potrebbero aiutare a ribaltare il quadro, da quelle ‘culturali’ (rendere più visibile il lavoro delle donne negli scali italiani) a quelle più concrete (migliorare spogliatori e servizi igienici a loro disposizione).

Sulle difficoltà degli scali italiani a evolvere sotto il profilo della parità di genere, più di molti dati e degli strumenti però colpisce un’immagine e una domanda, tratteggiata nelle prime pagine del libro. Lo scandalo politico-portuale che ha travolto la Liguria lo scorso maggio si è raccolto, evidenzia l’autrice, attorno a un “grumo di potere tutto maschile”, un sistema “che ha una precisa concezione delle donne, non nobile, e che, non troppo di rado, capita di incrociare in ambienti legati al porto”. Sarebbe andata (o forse sarebbe meglio dire: andrebbe) diversamente, se il potere in questione fosse (stato) incarnato da donne? Impossibile dirlo: ma sarebbe interessante essere nelle condizioni di poter dare, prima o poi, una risposta a questa domanda.

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